Antropologia e culture operaie: un incontro mancato

Antropologia e culture operaie: un incontro mancato

di Fabio Dei

Pubblicato in Causarano, P., Falossi, L. & Giovannini, P. (a cura di). Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali. Il Novecento italiano. Roma, Ediesse: p. 133-45.

Mi sarebbe piaciuto presentare in questo intervento il contributo degli studi italiani di antropologia culturale alla conoscenza delle culture operaie. Mi trovo in realtà a discutere i motivi di una  ricerca in larga parte mancata – anche se intravista e, per così dire, sfiorata. Tra anni ’60 e ’70 del Novecento l’antropologia e soprattutto la demologia italiane si sono trovate a ridefinire il proprio oggetto in termini di cultura subalterna: era ovvio che si ponessero il problema se e come affrontare la cultura della classe subalterna per eccellenza, appunto quella operaia. In effetti, la questione è stata al centro di un intenso dibattito, che non ha però prodotto un sistematico approccio di ricerca. A causa di un cruciale blocco teorico, che cercherò di seguito di evidenziare, l’antropologia italiana non è stata in grado di produrre su questo tema il contributo più specifico che avrebbe potuto offrire, vale a dire  un corpus consistente di ricerca etnografica. La fabbrica, il quartiere operaio, il distretto industriale non sono stati considerati adeguati campi di ricerca, né luoghi di manifestazione di una cultura popolare o di una  forma di vita peculiare e distintiva, e comunque degna di essere documentata etnograficamente. Interrogarsi sui motivi di questa scelta non è solo un ozioso esercizio di storia degli studi; può invece aiutarci a capire se e come è oggi possibile una ricerca socio-antropologica sulle culture operaie.

1. Egemonico/subalterno

Nei primi decenni del secondo dopoguerra gli studi antropologici italiani si sono profondamente trasformati, almeno in due diverse direzioni. Da un lato c’è stata un’ampia influenza del dibattito internazionale e soprattutto anglosassone, dopo una prolungata chiusura dovuta all’azione congiunta dell’autarchia culturale fascista e dell’avversione crociata per le scienze umane e sociali. Dall’altro lato, a partire da basi marxiste e gramsciane, si è aperto un processo di completa revisione di una tradizione interna di studi sul folklore e sulla cultura popolare contadina. Si trattava di una tradizione fortemente radicata nell’Ottocento, nata con la valorizzazione romantica del folklore come Volksgeist e consolidata con gli approcci filologici e classificatori del positivismo. La cultura contadina era qui valorizzata per la sua natura tradizionale, che la faceva apparire un deposito di sopravvivenze dell’antichità, l’espressione di un mondo antropologicamente autentico e  non contaminato dalla modernità. I suoi caratteri essenziali erano l’assenza di tecnologia, la spontaneità e ingenuità delle forme espressive e artistiche, le modalità  prevalentemente orali di trasmissione dei patrimoni di conoscenza, il carattere magico o paganeggiante di molte credenze e pratiche rituali.. In una parola, la cultura contadina si definiva per l’arcaicità e la separatezza rispetto a tutto ciò che caratterizzava il mondo moderno (o almeno, la sua autorappresentazione). È significativo il fatto che fra gli intellettuali che pensavano a sé stessi come moderni sia sempre stata comune la convinzione, almeno dal tardo Settecento fino a oggi, che una simile cultura popolare tradizionale stesse scomparendo, e che si trattasse di salvarne le ultime manifestazioni autentiche. Il discorso nostalgico su ciò che è in via di estinzione sul piano culturale è rimasto  praticamente lo stesso per più di due secoli.

Ora, fra anni ’60 e ’70 la “rivoluzione” gramsciana reimposta radicalmente il problema, rileggendo i rapporti tra cultura alta e cultura popolare attraverso le categorie di egemonia e subalternità. Il folklore, o cultura popolare, viene ridefinito come cultura delle classi subalterne, prodotta o comunque fatta propria da queste ultime in contrapposizione alle produzioni e alle imposizioni dei ceti dominanti. Sono alcune notissime osservazioni sul folklore contenute nei Quaderni del carcere a fondare questo approccio. Per la verità, Gramsci è lontanissimo dal pensare il folklore come una “cultura” in senso antropologico. Lo definisce anzi “agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia”[1]. Si distanzia tuttavia in modo netto da quelle concezioni evoluzioniste che pensavano al folklore come insieme di sopravvivenze o, come si esprimeva Raffaele Corso, come forma di “preistoria contemporanea”, considerandolo invece come prodotto di dinamiche storiche sempre contemporanee. In particolare, il folklore o la cultura popolare devono essere riconosciuti e compresi in relazione al progetto egemonico delle classi dominanti, dal quale sono modellati ma al quale si contrappongono, sia pure in modo non diretto e implicito. Ne risulta una definizione di folklore che farà da base alla rifondazione disciplinare degli studi demologici: “«concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel  tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» che si sono succedute nello sviluppo storico”[2].

È molto importante questa idea di contrapposizione, che conferisce alla definizione di cultura popolare un carattere non assoluto ma relazionale. Un fatto culturale non è mai in sé alto o basso, colto o popolare: lo possiamo definire popolare o folklorico solo in un contesto storico-sociale spcifico  in cui si contrappone (implicitamente, “strutturalmente” diremmo oggi) ad altri fatti culturali sostenuti dalle classi egemoni. La combinazione di questo principio con il concetto antropologico di cultura dà origine ad una sorta di paradigma teorico secondo il quale le classi subalterne sviluppano una propria cultura, distinta da quella dominante ed empiricamente documentabile in modo autonomo. È l’idea dei “dislivelli interni di cultura”, elaborata tra gli altri da A.M. Cirese: mentre l’antropologia o l’etnologia classiche si occupano dei dislivelli esterni, cioè delle culture non occidentali, “gli studi demologici si occupano della diversità culturale che si accompagna o corrisponde alla diversità sociale; tra tutti i comportamenti e le concezioni culturali essi isolano e studiano quelli che hanno uno specifico legame di «solidarietà» con il «popolo» (in quanto distinto dalle «élites»)”[3] (Cirese 1971, p. 13). Questa idea di “isolare” i tratti subalterni da quelli egemonici sviluppa in modo ambiguo l’originaria impostazione di Gramsci, che sottolinea invece la costante e necessaria interazione fra i due livelli; serve però molto bene a costituire in modo nuovo l’oggetto della disciplina, collocandolo dalla dimensione astorica della tradizione in quella della storia. Di più, i concetti di egemonico e subalterno servono  a collegare la teoria della cultura a quella della società, senza per questo cadere negli schematismi della più classica e deterministica dicotomia struttura-sovrasruttura.

2. Contadini e operai

Ora, quali ambiti culturali empiricamente identificabili corrispondono a questa definizione di cultura subalterna? L’impostazione fin qui descritta si presta bene a rileggere il concetto di cultura contadina. Il mondo contadino, e quello mezzadrile in particolare, forniscono un esempio  perfetto di “cultura subalterna”. Con la sua compattezza e il suo relativo isolamento, non fanno difficoltà a rispondere ai requisiti  del concetto antropologico di cultura, elaborato per l’appunto in riferimento a gruppi umani di piccole dimensioni, relativamente chiusi, isolati, compatti e scarsamente differenziati. Nel mondo contadino l’ambito del lavoro occupa lo stesso spazio degli altri aspetti della vita quotidiana; l’organizzazione e la divisione dei ruoli nel lavoro fanno tutt’uno con la struttura familiare e con la divisione dei ruoli in famiglia. Il linguaggio, i prodotti dell’espressione orale, fiabe, canti, feste e rituali rappresentano un repertorio e un patrimonio unitario e riconoscibile. In questo modo, il “nuovo” oggetto della demologia finisce per coincidere con il”vecchio” oggetto degli studi folklorici. I prodotti del folklore contadino possono essere riletti come documenti di una condizione subalterna; e si può tentare di mostarne (anche se con notevoli forzature) il potenziale oppositivo e di contestazione. Tra gli anni ’50 e ’70 la tematica del folklore progressivo è assai diffusa negli studi: ne parla Ernesto de Martino nei suoi scritti sulle lotte dei contadini lucani negli anni ’50[4]; e un autore, L. M. Lombardi Satriani, sostiene con grande forza la tesi del folklore come cultura di contestazione – che cioè, per il fatto stesso di esistere, si contrappone in senso progressivo alla cultura dominante (anche se solo implicitamente, cioè indipendemente dai contenuti, che possono essere e di fatto sono spesso del tutto conservatori)[5].

Che dire allora dell’altra grande classe subalterna, quella operaia? Le condizioni di lavoro e di vita degli operai sembrano molto meno adatte a confluire in un concetto antropologico di cultura.  Si tratta di condizioni di vita disperse, con l’assenza di una vera e propria comunità, nello stesso senso in cui si può parlare di comunità o di mondo contadino. Per gli operai, non si danno di solito tradizioni tramandate nel tempo, di generazione in generazione; i tratti culturali che li caratterizzano non hanno alcuna nobiltà legata ai tempi antichi, alle profondità della storia, ed hanno semmai il carattere effimero e inautentico delle cose moderne. Tra gli operai, mancano quasi del tutto  (almeno così si pensa) repertori espressivi di canti, racconti, oppure di riti e credenze – cioè tutti gli ingredienti fondamentali di cui si immaginava fatta la cultura contadina.  Ma soprattutto, il problema è questo: se si possono riscontrare caratteristiche ricorrenti e distintive della cultura operaia, queste sono quasi sempre parte della cultura di massa. Sono cioè prodotti, spesso anche obsoleti o di scarto, dell’industria culturale, la quale è ovviamente egemonica. Cosa fanno ad esempio gli operai nell’ambito del consumo e del tempo libero? Guardano la televisione; seguono gli sport di massa; appena possibile, vanno a fare shopping nei supermercati e appena se lo possono permettere, comprano la Cinquecento e  vanno in vacanza al mare. Cosa può esserci di oppositivo o di contestativo in questo? L’estetica operaia, dal punto di vista degli intellettuali di quegli anni, è l’opposto dell’estetica contadina: quest’ultima antica e profonda, nobile nella sua povertà, alternativa e antiborghese, la prima inautentica, banale, plastificata e artificiosa, in definitiva piccolo-borghese. È questa la base delle accuse di imborghesimento che si muovono alla classe operaia: l’inserimento nei circuti consumistici, la resa senza condizioni ai prodotti più kitsch e deteriori dell’industria culturale, sembrano (agli intellettuali che si definiscono antiborghesi, e che invece sociologicamente sono piena espressione del ceto borghese) una drammatica  negazione della coscienza di classe.

Del resto, questo atteggiamento ambivalente nei confronti della classe operaia è largamente diffuso nel clima intellettuale di quegli anni. Da un lato, la “coscienza di classe” operaia è un riferimento ideale (quasi mistico, talvolta), un punto di riferimento per le critiche alla società industriale e capitalistica. Dall’altro, i gruppi sociali che concretamente si trovano a rivestire il ruolo operaio sono troppo vicini e compromessi con la modernità industriale per risultare interessanti. La loro cultura non corrisponde con la loro condizione oggettiva: siamo di fronte a una “falsa coscienza”, frutto dell’omologazione prodotta dagli apparati ideologici dello stato, dalle comunicazioni e dai modelli del consumo di massa. La critica anticapitalistica si nutre appunto  degli attacchi francofortesi all’industria culturale, o della poetica pasoliniana che vede l’unica possibile salvezza in ciò che alla modernità resiste, o che ne resta anche se inconsapevolmente ai margini. Per quanto “oggettivamente” portatori di una coscienza rivoluzionaria, gli operai sono vittime dell’ideologia: studiarne empiricamente la cultura significherebbe semplicemente imbattersi negli spettri del potere. E significherebbe anche perdere il senso dei confini della disciplina, minacciando di trasformare l’antropologia in una brutta copia della sociologia o della semiotica della cultura di massa.

3. Che cos’è la cultura popolare?

Allora, negli studi antropologici si apre una lacerazione, o una contraddizione, per certi versi drammatica. Da un lato, si rivendica una coerente applicazione della definizione gramsciana, che estenda al mondo operaio lo studio della cultura popolare. Dall’altro c’è una forte resistenza a compiere questo passo, per motivi che sono insieme di difesa della specificità disciplinare, di posizionamento teorico-politico e, non da ultimo, di avversione estetica per la cultura di massa. Questa tensione emerge con grande forza in un dibattito che, intorno alla fine degli anni ’70, coinvolge la gran parte degli antropologi italiani su riviste come Problemi del socialismo e La ricerca folklorica[6]. Quest’ultima rivista inaugura le sue pubblicazioni proprio con una discussione sul concetto di cultura popolare: G. Sanga, che ne è curatore, sottopone a un gran numero di studiosi un questionario che pone al centro proprio la questione operaia: “La cultura operaia va o no collocata nell’ambito della cultura popolare?”. Le risposte positive sono poche e caute, e partono dalla constatazione che una esclusione ridurrebbe l’ambito della cultura popolare – per usare le parole di Sanga – alle classi precapitalistiche residuali.  Pietro Clemente è fra i più decisi nell’affermare la necessità di “ridimensionamento del concetto di folklore, carico di implicazioni arcaicizzanti e ruraliste, e l’assunzione del proletariato industriale (nella sua faccia subalterna) dentro l’area di interesse demologico”[7]. In particolare, egli ritiene  che la demologia o l’antropologia dovrebbero assumere nei propri studi un versante specifico della cultura del proletariato urbano, quello della vita quotidiana, della routine, dei livelli primari di organizzazione. Ciò implica il rifiuto di “trattare il proletariato come classe della teoria marxista, giacché il demologo non può che assumerla come classe della osservazione e della documentazione demologica”; anzi,  proprio la particolare collocazione storica che il marxismo ha assegnato alla classe operaia ha influenzato in negativo gli studi sociali che su di essa sono stati compiuti[8]. G. Bertolotti, in una prospettiva più vicina alla sociologia, osserva come nella demologia italiana l’attributo della subaltermità sia stato attribuito solo a contadini e pastori. “Assumendo i contadini come depositari della cultura popolare, gli si è attribuito il ruolo di rappresentanti culturali di tutte le classi subalterne, omogeneizzando così esperienze profondamente divergenti. È emblematico osservare come, nei rari casi in cui ci si è occupati di ‘cultura operaia’, lo si è fatto nell’ottica di dimostrare che gli operai sono i parenti stretti dei contadini e che, dove il capitalismo non ha ancora fatto tabula rasa, essi conservano ancora le loro ‘originariÈ tradizioni contadine”[9]. Questo autore considera la centralità contadina come una “conseguenza diretta dell’origine meridionalistica degli studi folklorici”[10] ; una notazione interessante, che però inverte forse la relazione causa-effetto. È in virtù di una certa concezione del folklore che si è andati a cercare e a “isolare” i contadini, e che gli studi hanno assunto un’impostazione meridionalistica, vedendo nel Mezzogiorno un immenso serbatoio di tradizioni autentiche e incontaminate.

A queste aperture corrisponde un più generale disinteresse per la questione operaia. Per meglio dire, le risposte al questionario della rivista parlano degli operai come della “classe della teoria marxista”, più che come concreto gruppo sociale che una cultura (in senso antropologico) di qualche tipo dovrà pur avere. La cultura operaia è intrinsecamente oppositiva e contestativa? Le sue aspirazioni egemoniche e rivoluzionarie giustificano l’analisi antropologica in termini di subalternità? Sono queste le domande prevalenti, dettate più dal confronto con le elaborazioni ideologiche che con la logica della ricerca sociale. In un caso (un filosofo, per la verità, e non un antropologo in senso stretto) si arriva alla perentoria affermazione che “la cultura operaia non esiste […] giacché la classe operaia, unica classe subalterna tipicamente moderna, è culturalmente vergine”, nel senso che non recepisce quasi niente della cultura popolare del passato”. L’unica possibilità di avere una cultura, secondo questo autore, sta nel conquistare gli strumenti della cultura egemonica, cioè  la tradizione umanistica e la scienza sperimentale moderna[11]. Questa è una formulazione che si allontana consapevolmente e provocatoriamente dal concetto antropologico di cultura: ma dimostra anche quanto la prevalente elaborazione marxista fosse lontana e per molti aspetti nemica della sensibilità etnografica.

Non mi è possibile citare ulteriori esempi. È comunque chiaro in questo dibattito il disagio nel parlare di cultura operaia se non come sinonimo di coscienza di classe. Cos’altro resterebbe in essa oltre la coscienza di classe? Da un lato, la classe operaia appare troppo povera, sradicata, frammentata per possedere una cultura; dall’altro, troppo centrale è il suo ruolo come soggetto politico nella teoria rivoluzionaria, per farne un semplice oggetto d’indagine socio-antropologica, centrata sulle strutture della quotidianità.

4. Il lavoro operaio

Il tema del lavoro è forse il migliore esempio della dismissione di un aspetto essenziale della cultura operaia. Ancora una volta, il contrasto con il lavoro contadino non potrebbe essere impostato con maggior forza. Il lavoro contadino è culturale: i gesti del seminatore, dello zappatore, del pastore portano con sé il peso di una storia  di millenni, testimoniano di un  rapporto armonioso dell’uomo  con il mondo naturale e sono in via di estinzione, hanno bisogno di essere salvati Lo stesso si può dire del lavoro artigiano tradizionale, quello svolto con un impiego minimo di tecnologia. Al contrario, il lavoro operaio è rappresentato come puramente passivo e ripetitivo , tutto appiattito sul modello  taylorista dell’uomo-macchina e della catena di montaggio – in una parola, è lavoro alienato (un altro dei termini ambigui del marxismo, tanto denso di connotazioni quanto vago e oscillante nei suoi significati).

Quando nell’antropologia italiana si parla di lavoro, è dunque quasi sempre il lavoro contadino al centro dell’attenzione; oppure, lavori artigianali che implicano saperi speciali, trasmessi oralmente o ostensivamente attraverso le generazioni.  La letteratura in proposito è molto ampia, e spazia sugli ambiti geografici e sui saperi tecnici più svariati: dalla pastorizia sarda alla mezzadria toscana ai boscaioli delle valli alpine, dai maestri d’ascia dei cantieri navali ai panificatori tradizionali alla tessitura domestica, e così via.  Lo stesso vale per i musei: in molte regioni italiane ricchi circuiti museali documentano il lavoro contadino e artigianale, con raccolte di attrezzi, ricostruzioni degli ambienti produttivi e talvolta dispositivi interattivi che consentono al visitatore di sperimentare in modo corporeo la realtà del lavoro tradizionale.  In tutto ciò c’è la lodevole intenzione di documentare e “salvare” pratiche e saperi culturalmente assai densi, non trasmissibili attraverso astratte “istruzioni” ma legati al corpo, alla mano, all’occhio[12];  c’è l’idea di scoprire comparativamente la diversità ma anche gli aspetti universali dei modi in cui gli esseri umani “vengono a  patti con la materia”, per usare una celebre espressione dell’influente etnologo francese A. Leroi-Gourhan. Che il lavoro operaio possa essere ugualmente significativo, e rappresentare l’oggetto di una simile operazione di valorizzazione e patrimonializzazione, sembra non sfiorare neppure la mente di etnografi e museografi. I pochi musei che riguardano l’industria sono centrati sulla storia delle tecnologie più che sul lavoro operaio in senso stretto, con poche eccezioni. Si parla magari del lavoro operaio in relazione alle lotte e alle rivendicazioni, ma  quasi mai per cercare di documentarlo come forma di sapere pratico, come patrimonio culturale in senso stretto.

Se posso portare per un attimo la discussione su un piano soggettivo, per me la comprensione del valore culturale del lavoro artigiano ha avuto un decisivo ruolo formativo. Alla fine degli anni ’70,  all’università di Siena i professori ci portavano in giro per la provincia a studiare le botteghe dei fabbri, ce n’erano ancora parecchi che lavoravano con tecniche tradizionali. Ricordo due cose: da un lato un mio certo iniziale sconcerto, perché io venivo da quel mondo delle officine, di laboratori sporchi, macchine e ferraglia, tonfi e rumori: è ciò da cui pensavo di scappare andando all’università e mi ritrovavo portato lì come alla fonte autentica del sapere. E ricordo poi l’espressione affascinata dei professori, quando i fabbri ci parlavano di come riconoscere le varie gradazioni del rosso del metallo, e di come articolavano il processo produttivo  e ne scandivano le fasi (forgia, battitura, tempra) sulla base non di cronometri, modelli o istruzioni astratte, ma del rapporto sensibile con le qualità concrete della materia.

C’era lì tutto un sapere incorporato nella mano e nell’occhio, un mondo di segni coordinati a gesti. L’intera bottega del fabbro appariva come un complesso e articolato sistema ermeneutico. Si leggevano  Lévi-Strauss e Leroi-Gourhan in quegli anni, e c’era lì un esempio eccezionale di logica del concreto, una modalità culturalmente ricchissima di venire a patti con la materia, attraverso pratiche incorporate e non attraverso saperi formalizzati e astratti. Ma tutta questa teoria, mentre consentiva di vedere la centralità della tematica del lavoro, aveva come corollario la tesi della deculturazione del lavoro industriale – e quindi operaio. In quest’ultimo, il saper fare non apparterrebbe più al produttore e al suo corpo antropologicamente plasmato, ma alla macchina (alla scienza e alla tecnica che la producono), di cui l’operaio è inerte appendice[13]. Ora, è chiaro che la tesi della deculturazione coglie unn aspetto importante delle trasformazioni del lavoro in epoca industriale; è altrettanto chiaro però che non si può schiacciare interamente il lavoro operaio sul modello taylorista. Quest’ultimo è un modello astratto e speculativo, che non tiene conto delle molteplici realtà delle pratiche lavorative e che non si realizza neppure nella più classica catena di montaggio.  Se poi consideriamo la piccola industria, i distretti produttivi locali, la molteplicità di pratiche legate all’indotto e così via, ci troviamo di fronte a una gamma di saperi empirici  e pratiche tecniche in cui la differenza rispetto all’artigianato non è così chiara e netta. Perché dunque negare al lavoro operaio la stessa dignità culturale di quello contadino o artigiano? Non c’è anche in esso un rapporto complesso coi i segni e con la materia, complesse modalità di coordinamento mano-occhio-mente, e quel sapere incorporato, concreto, appreso ostensivamente che tanto interessa all’antropologia? La mediazione della macchina non esclude tutto questo, anzi lo amplia, perché estende il campo ermeneutico allo stesso rapporto con la macchina, all’interpretazione dei suoi rumori, alle pieghe del suo funzionamento, ai modi della sua dignostica e della sua riparazione. C’è poi la grande questione della “resistenza” nei confronti della tecnologia, di come cioè la cultura del lavoro sviluppa strategie o tattiche di confronto con l’organizzazione imposta dall’automazione, creando una discrepanza tra il modello produttivo ideale e quello reale. E ancora, il problema del come stare in fabbrica, delle forme socio-culturali di adattamento ai tempi, agli spazi, alle relazioni orizzontali o gerarchiche all’interno dell’ambiente di lavoro.

Insomma, una realtà multiforme e ricchissima, che sarebbe stata tutta da osservare e documentare. È invece mancato  proprio questo: una ricerca empirica che ci mostrasse cos’è veramente il lavoro operaio, al di là dell’immaginazione teorica e politica  che attorno ad esso si accentrava in quegli anni. L’antropologia non era pronta a compiere questo passo, ad estendere l’analisi culturale del lavoro dai contesti tradizionali a quello della fabbrica. Era forse un fenomeno troppo prossimo per la scienza dello “sguardo da lontano”. Si tratta di una mancanza cui si potrebbe solo in parte rimediare oggi. La vicenda del lavoro nella seconda metà del Novecento può essere ricostruita attraverso fonti scritte, orali e materiali; ma se il lavoro è una pratica che non si esaurisce in ciò che può esserne detto, l’assenza di una documentazione etnografica non potrà mai essere colmata fino in fondo.

5. Etnografie

Quanto detto per la tradizione italiana degli studi vale in parte anche per l’orizzonte internazionale della ricerca. Già all’inizio degli anni ’60, H. Bausinger aveva messo in guardia contro la tendenza a considerare lo sviluppo tecnologico fonte di impoverimento e dissoluzione della cultura popolare, sottolineando piuttosto come attorno ad esso i sistemi culturali – i mondi antropologici – si riorganizzino e per certi versi si arricchiscano costantemente[14]. Ma questa avvertenza è rimasta poco ascoltata, e gli studi antropologici e folklorici hanno continuato a svilupparsi  attorno a concetti ingenui di tradizione e autenticità, tenendosi lontano dagli aspetti “moderni”, tecnologici e massificati delle culture operaie. Non mancano però rilevanti eccezioni. In Francia, ad esempio, disponiamo del monumentale lavoro di Michel Verret, che fra anni ’70 e ’80 ha dedicato una serie di volumi ad aspetti diversi del mondo operaio, come il lavoro, la vita familiare, le pratiche di consumo e di tempo libero[15]. Anche quella di Verret non è una ricerca etnografica. Tuttavia, lavorando su una molteplicità di fonti, questo autore propone un quadro di grande spessore di quella che potremmo chiamare la fenomenologia delle pratiche operaie. Verret crede nel carattere peculiare e distintivo della cultura operaia. Anche quando ne analizza il rapporto con la tecnologia, il consumo e i mass-media, mette in rilievo i modi particolari in cui la materia prima della produzione di massa viene plasmata nel momento del consumo dalla “forma di vita” operaia. Così per il lavoro, di cui è sottolineata la continuità con quello artigiano, lo sviluppo di capacità tecniche incorporate, di un’ermeneutica degli stati materiali (nel senso di un costante processo di interpretazione e connessione di segni o indici riguardanti la materia prima, gli utensili o le macchine  e i corpo stessi), e di un vero e proprio culto della cooperazione, della solidarietà, del “collettivo efficace”. Così per il consumo, dove la peculiarità operaia si manifesta nell’arte e nel piacere di utilizzare gli oggetti intensificandone gli usi, facendoli diventare polivalenti, e nella pratica del bricolage. Verret popone qui una vera e propria rassegna di pratiche della quotidianità, di cui analizza le articolazioni simboliche: ad esempio i momenti dedicati al cibo, con un culto particolare della quantità e dell’eccesso nel mangiare, una cultura del loisir incentrata sul gioco e la festa, i riti di aggregazione della compagine familiare e così via.

Verret non dà centralità ai concetti di egemonico e subalterno; nondimeno, caratterizza la cultura operaia in modo contrastivo rispetto a quella dominante (e in parte rispetto alla cultura contadina), facendone così risaltare l’autonomia – in modo forse eccessivo. Sul piano degli aspetti espressivi, ad esempio, insiste sul fatto che il sapere pratico degli operai, radicato nel lavoro e centrato sulle “cose”, li tiene lontani dai saperi e dai generi espressivi formalizzati tipici del ceto borghese (arte, letteratura etc.)  e soprattutto dalla cultura scritta. A ciò sarebbe legato anche un rapporto difficile con la religione da un lato e con la forme classiche della politica dall’altro, in particolare con una certa resistenza ad adeguarsi alle forme della politica rappresentativa. Emergerebbe qui una contrapposizione fra la logica dello stato rappresentativo, che autonomizza la sfera politica ( e rende necessarie per praticarla propiro quelle competenze culturali formali che gli operai non possiedono)  e una “competenza popolare per l’azione politica diretta”.

L’attribuzione di una esagerata compattezza e autonomia alla sfera culturale operaia è probabilmente il prezzo che Verret paga per la sistematicità del suo approccio descrittivo. In ogni caso, la sua sensibilità non è isolata: nel contesto francese, l’elemento operaio non è mai del tutto trascurato nella riflessione sul patrimonio culturale etnografico[16]. La tematica è presente anche in altre tradizioni di studio, come quella tedesca degli empirische Kulturwissenschaften e quella britannica dei cultural studies. In quest’ultimo caso c’è un diretto riferimento a Gramsci, le cui riflessioni su egemonia e subalternità confluiscono nel concetto di subcultura  – un aggregato di valori, comportamenti, scelte di consumo e così via che si costituisce in contreapposizion e splicita o implicita alla cultura dei ceti dominanti. Molti studi hanno cercato di leggere certe caratteristiche della working class in termini di subcultura: un esempio piuttosto celebre è Learning to Labour di P. Willis[17], uno studio sull’atteggiamento verso la scuola di un gruppo di giovani di estrazione operaia. Willis mostra come questi giovani crescano e si costruiscano un’identità attorno a valori (il lavoro manuale, la forza fisica, le qualità maschili) che si contrappongono a quelli promosse dalla scuola: i loro fallimenti scolastici sarebbero così da imputare non tanto a una incapacità di capire e seguire quei valori e quelle pratiche sociali, ma da un loro positivo rifiuto – dalla percezione della necessità di scegliere fra due mondi culturali in qualche modo incompatibili. Diversamente da quanto si è talvolta pensato, Willis non propone di identificare l’intera cultura operaia con un sistema subculturale. Come ha chiarito in una recente intervista, quella dei suoi 12 ragazzi “antiscuola” era solo una tra le possibili declinazioni della cultura operaia: i loro compagni che invece si integravano e andavano bene a scuola erano ugualmente di estrazione operaia.  Nondimeno, Willis continua a pensare a una irriducibile diversità di quella che nonostante tutto definisce ancora working class culture, “capace di inglobare nella vita quotidiana la cultura di massa defeticizzando i suoi significati mercificati,  in un modo che resta estraneo alle classi medie”[18].

6. Quali prospettive

Nei contributi appena considerati, la messa a fuoco etnografica dell’oggetto “cultura operaia” è pagata con l’assunzione di una sua eccessiva compattezza e oppositività. Lo stesso Willis lo riconosce, quando ammette  di aver dovuto esagerare il contrasto con le classi medie per far risaltare l’autonomia della working class culture: “avevo bisogno di una cornice; […] se fai risaltare la vitalità di un gruppo è sempre a spese di un altro gruppo”[19].  Merito di questi studi è aver attirato l’attenzione sui modi in cui le tecnologie, i consumi di massa e altri aspetti della società contemporanea siano usati e plasmati in modo specifico da specifici gruppi sociali, identificabili in termini di relazioni di egemonia-subalternità.  Lontano dal cancellare le differenze culturali, i processi massificanti della modernità ne fanno emergere nuove configurazioni  che possono essere studiate empiricamente: un punto che, come si è visto, non era stato riconosciuto dal dibattito italiano degli anni ’70, ancora troppo legato alla contrapposizione tra le culture tradizionali e autentiche e il processo di omologazione innescato dal capitalismo. Il rischio è (come mi sembra accadere soprattutto in Verret) di essenzializzare queste nuove configurazioni culturali. Il che ci porta di nuovo a chiederci se una categoria così generale come quella di “cultura operaia” sia davvero la corretta unità di analisi. Cioè, è esistita o esiste davvero una qualche forma di unità culturale che corrisponde alla condizione operaia?

Da un punto di vista storico, non c’è una risposta oggettiva a questa domanda. Chiedersi se sia esistita una cultura operaia equivale a chiedersi se e in che modo essa sia stata percepita dagli operai stessi o da altre componenti sociali. Il che significa ricostruire la storia delle concezioni culturalmente significative dell’ “operaità”, degli stereotipi che hanno socialmente costruito questa figura. .È un percorso intrapreso ad esempio nel recente Tute blu di A. Sangiovanni[20], che parte dalle diffuse convinzioni sulla pericolosità sociale dell’operaio fino ad arrivare ai recenti luoghi comuni sulla fine della classe operaia e della sua coscienza politico-culturale, che si sarebbe progressivamente esaurita dalla marcia di Torino in poi . Nel mezzo c’è la fase degli anni ’60 e ’70, la stagione delle lotte politiche e sindacali in cui la visibilità pubblica della classe operaia raggiunge il massimo livello. Ciò favoriva forme di autorappresentazione dalle quali emergeva tutta in positivo un’estetica della condizione operaia: l’operaio come homo faber,  forte produttore e plasmatore, mosso da un’etica del lavoro e della solidarietà, tratti che portano a rivendicare una specifica cultura. È quello che fa dire a un operaio, in un’inchiesta di G. Pansa  del 1979 : “Io sono tutto operaio, dalla testa ai piedi. Ho una mia cultura, affinata negli anni, ma senza voler imitare i borghesi”[21]. A questa valorizzazione si lega anche il mito della classe operaia diffuso in quegli anni fra gli intellettuali, basato sull’idea di una coscienza di classe come forma di sapere più importante di ogni conoscenza acquisita in modo libresco e borghese. L’aneddoto dell’operaio chiamato in commissione di laurea, che risulterà poi l’unico vestito in giacca e cravatta a fronte di professori che esibivano jeans e abiti “operai” è assai significativo del clima e delle sue contraddizioni.

Di quegli anni si possono oggi studiare le memorie e le rappresentazioni; c’è ad esempio un grande lavoro sulle fonti orali in gran parte da svolgere. Certo, non se ne può più fare etnografia. E per il presente?  Almeno una lezione si può trarre dal dibattito che ho cercato di ripercorrere. Sarebbe un errore drammatico quello di attribuire autenticità alla cultura operaia degli anni ’60 e ’70, lamentandone l’odierna scomparsa e pensando che oggi non c’è più nulla di interessante da studiare. Riprodurremmo così la fallacia che oggi critichiamo: trascurare il presente inautentico accecati dalla nostalgia del passato. Si tratta invece di mettere a fuoco, descrivere e documentare ciò che ci sta sotto gli occhi, per quanto complesso, frammentato e sfuocato possa apparire. Proporre etnografie del  lavoro, delle forme di consumo, degli stili di vita domestica e quotidiana di quei gruppi sociali che, sia pure fra molte virgolette, possiamo chiamare operai o subalterni.  È però un auspicio rispetto al quale non si può essere molto ottimisti: si tratta di terreni di ricerca ancora troppo poco incoraggiati dalle discipline antropologiche, in Italia come altrove. Ci sarebbe da rimboccarsi le maniche.

[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituro Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, vol. 3, p. 2312

[2] Ibid., p. 2311

[3] A.M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1971, p. 13

[4] E. De Martino, “Note lucane”, in Furore simbolo valore, Milano, Il Saggiatore, 1962

[5] L.M. Lombardi Satriani, Folklore come cultura di contestazione, Messina, Peloritana, 1966; Id., Antropologia culturale e asnalisi della cultura subalterna, Rimini, Guaraldi, 1974

[6] Mi riferisco in particolare al numero monografico di La ricerca folklorica (1, 1980, a cura di Glauco Sanga) su “La cultura popolare: questioni teoriche” e ai due numeri di Problemi del Socialismo dedicati a “Orientamenti marxisti e studi antropologici italiani – Problemi e dibattiti” e “Studi antropologici italiani  e rapporti di classe – Dal positivismo al dibattito attuale” (quarta serie, XX, nn. 15-16, 1979).

[7] P. Clemente, “Dislivelli di cultura e studi demologici italiani”, Problemi del socialismo, XX, n. 15, 1979, p. 147.  La specificazione “nella sua faccia subalterna” allude al fatto che la classe operaia aspira a diventare egemone, ed ha già nella sua organizzazione aspetti che la spingono in questa direzione

[8] P. Clemente, “Il cannocchiale sulle retrovie. Note su problemi di campo e di metodo di una possibile demologia”, La ricerca folklorica, 1, 1980, p. 40

[9] G. Bertolotti, “Verso un’antropologia delle società complesse”, La ricerca folklorica, 1, 1980, p. 18

[10] Ibid.

[11] U. Cerroni, “Per una teoria critica della cultura”, “, La ricerca folklorica, 1, 1980, pp. 28-9.

[12] Si veda su questo punto G. Angioni, a cura di, “Il lavoro e le sue rappresentazioni”, La ricerca folklorica, 9, 1984

[13] Il tema della deculturazione del lavoro industriale è particolarmente forte nell’opera di A. Leroi-Gouhran (Il gesto e la parola, trad. it. Torino, Einaudi, 1977), che ne fa la base per una critica radicale della modernità e vede in essa un vero e proprio vicolo cieco nel processo evolutivo dell’umanità. Per una discussione critica di questo aspetto rimando a F. Dei, “Ritorno all’Eden: note su lavoro e razionalità”, Parolechiave, 14-15, 1997, pp. 103-15

[14] H. Bausinger, Cultura popolare e mondo tecnologico, trad. it. Napoli, Guida, 2005 (ed. orig. 1961)

[15] M. Verret, L’espace ouvrier, Paris, Armand Colin, 1979 : Id., Le travail ouvriere, Paris, Armand Colin, 1982 ; Id., La culture ouvriére, Saint Sébastien, ACL Editions/Societé Crocus, 1988.

[16] Come dimostra tra l’altro il volume curato dalla Mission du patrimoine ethnologique, Culture du travail, Paris, Éditions de la maison des sciences de l’homme, 1989

[17] P. Willis, Learning to Labour. How working class kids get working class jobs, Farnborough, Hants, Saxon House, 1977

[18] H. Kleijer, G. Tillekens, “Twenty-five years of Learning to labour. Looking back at British cultural studies with Paul Willis”, Soundscapes. Journal of Media Studies, 5, 2003 (www.soundscapes.info)

[19] Ibid.

[20] A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2006

[21] Ibid.