Antropologia critica e politiche del patrimonio. Una discussione

Antropologia critica e politiche del patrimonio. Una discussione

di Fabio Dei

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Nel numero inaugurale di Antropologia museale, un articolo di Dino Palumbo solleva alcuni problemi decisivi riguardo le nozioni di patrimonio e di identità culturale. Sento il bisogno di riprenderli, da un lato, per sottolinearne l’urgenza e l’impatto sull’idea stessa di un’antropologia del patrimonio; e, dall’altro, per discutere criticamente alcune delle conclusioni cui Palumbo perviene.

L’articolo parte dalla critica a quello che potremmo chiamare un senso comune storico-artistico, che tende a immobilizzare i beni culturali in una dimensione di preservazione e di fruizione estetica o storiografica, condannando come “scempio” ogni intervento su di essi che non corrisponda a puri criteri di “correttezza” filologica. Nel campo dei beni culturali ecclesiastici, il caso che Palumbo discute più diffusamente, si tende ad esempio a condannare l’uso di chiese di pregio artistico come “semplici luoghi di culto”, attraverso pratiche di devozione (per es. l’apposizione di corone dorate sulle immagini mariane, o l’accumulo di addobbi in occasioni festive) che mettono in pericolo il patrimonio e ostacolano lo sguardo estetico. Si abbandonerebbe così al degrado, come si usa dire (in Italia e altrove), un patrimonio culturale “che non ha uguali al mondo”.

Questo atteggiamento, che combina la distillazione di uno sguardo estetico “puro” con la denuncia sdegnata dell’incuria e del degrado (da parte delle istituzioni o degli “ignoranti”), non caratterizza solo un’appartenenza disciplinare: è anzi assai diffuso nei ceti intellettuali e nell’opinione pubblica colta, e demarca (dal punto di vista di chi lo fa proprio) uno stile e una identità culturale. Come ogni identità, anche questa si definisce per contrasto. Dunque, del discorso sul patrimonio fa parte integrante la polemica con chi non convivide gli stessi valori, chi è insensibile all’arte, alla storia e alla memoria, con chi opera o consente lo scempio. Come ogni altra identità, inoltre, anche questa si nutre di pratiche più o meno ritualizzate. La visita ai monumenti e ai musei è certamente uno di questi rituali, forse il più cospicuo e significativo. Frequentare i luoghi deputati alla valorizzazione dell’arte e della storia, saper commentare adeguatamente, mostrare padronanza del linguaggio tecnico, interessarsi a datazioni e stili è contrassegno inequivocabile di appartenenza socio-culturale.

Ora, l’antropologia prova naturalmente un certo disagio di fronte a un’idea di patrimonio che parla esclusivamente un linguaggio storico-artistico. Usando un concetto più ampio di cultura, essa è portata a valorizzare come parte del patrimonio anche quelle pratiche e quegli oggetti che lo storico dell’arte considera impuri – ad esempio, le feste religiose e gli usi di culto che deturperebbero gli “autentici” beni culturali. Fin qui, sembra che l’antropologia possa limitarsi a una istanza di ampliamento della nozione di patrimonio culturale: contro l’ingenuo élitismo storico-artistico, essa rivendica l’inclusione nella nozione di patrimonio dei beni etnografici, poveri, popolari, da valorizzare per il loro valore documentario e rappresentativo più che per la loro rarità storica o qualità estetica.

Ma, nel complesso, questa rivendicazione implica l’accettazione del discorso comune sul patrimonio – cui del resto gli antropologi, in quanto appartenenti a un ceto intellettuale, “naturalmente” partecipano, e che anzi spesso si portano dietro come habitus in virtù della loro appartenenza sociale. L’antropologia del patrimonio si configurerebbe così come una disciplina specialistica a sostegno delle pratiche e del discorso sul patrimonio culturale, competente rispetto a un tipo particolare di beni (quelli “etnografici”, “folklorici”, materiali o volatili che siano), e con un rapporto ambivalente nei confronti delle discipline storico-artistiche: la dolorosa consapevolezza di giocare il ruolo dei cugini poveri, da un lato, e dall’altro la convinzione di rappresentare una raffinata avanguardia, in virtù dell’uso di un più complesso concetto di cultura.

L’approccio critico-etnografico proposto da Dino Palumbo cerca di scardinare proprio questo assunto – l’idea che l’antropologia debba e possa accettare il discorso comune sul patrimonio come base delle proprie pratiche conoscitive. Tale discorso deve semmai rappresentare l’oggetto di studio di una etnografica critica, non certo una sua risorsa epistemica. Esso si fonda su categorie descrittive e analitiche, su giudizi di valore, di rilevanza storica ed estetica che non hanno nulla di ovvio e di assoluto, e che sono al contrario maturati in un contesto storico particolare, in particolari condizioni politiche e retoriche.

Più specificamente, citando gli studi di R. Handler sul Quebec, Palumbo sostiene che è il contesto politico e discorsivo del nazionalismo a plasmare le odierne concezioni del patrimonio culturale. L’idea di un corpus di beni intesi come possesso inalienabile di una comunità, organici al territorio e alla tradizione, nei quali sarebbero depositate le memorie storiche, i valori, e in definitiva l’identità collettiva, è strettamente legata al discorso e alle pratiche istituzionali e di potere del nazionalismo. Il patrimonio culturale, così inteso, è un apparato simbolico indispensabile per immaginare una comunità nazionale e fondare il potere dello Stato su di essa. Tale apparato si costituisce, come si esprime Handler, attraverso un processo di “oggettivazione culturale”: un “meccanismo di fissazione, naturalizzazione e, dunque, immobilizzazione di processi socio-culturali complessi, che l’immaginazione nazionalista ha la necessità di rappresentare in forma integralista e olistica, sia per mettere in atto le proprie procedure di classificazione e di controllo, sia per fornire ai diversi attori sociali e politici dei beni-possesso identificanti” (Palumbo 2002, p. 18).

Tornerò fra un attimo sul problema del nazionalismo. Intanto vorrei sottolineare come lo sguardo antropologico sul patrimonio, secondo l’argomento fin qui tratteggiato, apra uno scenario peculiarmente auto-riflessivo. Se ci limitiamo a rivendicare l’inclusione dei documenti etnografici tra i beni culturali, rischiamo di assumere una nozione essenzialista di “patrimonio”, di non cogliere le condizioni storico-culturali che fondano questa stessa nozione. L’antropologia deve cercare di descrivere e comprendere queste condizioni – dalle quali, peraltro, il suo stesso linguaggio è germinato, e che hanno determinato la sua stessa esistenza come campo specialistico del sapere (giacché, come mostrano le analisi di Handler, Herzfeld e altri, tra articolazione del discorso nazionalista e costituzione di ambiti disciplinari umanistici vi è un nesso molto forte). Ciò significa che nozioni centrali per la disciplina – ad esempio cultura, tradizione, identità – non possono esser semplicemente assunte come risorse per una positiva descrizione dei beni etnografici; devono invece venire criticamente indagate, nella loro costituzione storica come nei loro usi attuali, in relazione alle pratiche in senso lato politiche che ne fanno uso.

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Come ho detto, la consapevolezza auto-riflessiva cui l’articolo di Palumbo richiama mi sembra fondamentale nella definizione di una moderna antropologia del patrimonio. E credo si debba anche condividere e sottolineare la sua preoccupazione per una scarsa diffusione di tale consapevolezza negli studi sul patrimonio e sui beni culturali, nell’ambito artistico e storiografico come in quello antropologico e folklorico: studi che aderirebbero spesso, sia pur implicitamente, “ai presupposti epistemologici, teorici e ideologici del discorso nazionalista” (ibid., p. 19). Ma quali conseguenze implica l’approccio critico per le pratiche conoscitive di un’antropologia del patrimonio?

La risposta che Palumbo propone, se la intendo correttamente, è che l’antropologia deve studiare non il patrimonio ma i processi di patrimonializzazione. L’esistenza di beni culturali di un certo tipo è un presupposto non del discorso antropologico ma di quello “nativo”, fa cioè parte dell’oggetto di studio. Ciò apre importanti e urgenti progetti di ricerca: in primo luogo, lo studio di quelle élites culturali che si sono trovate (e si trovano) al centro dell’intreccio tra strategie di identificazione politica, costituzione di saperi specialistici e processi di patrimonializzazione. Mettere a fuoco questo aspetto significherebbe probabilmente, per l’Italia, riscrivere la storia degli studi di folklore e tradizioni popolari. Ciò di cui disponiamo oggi sono prevalentemente “storie interne”, che suppongono l’esistenza di un oggetto (ad esempio la poesia popolare, la cultura materiale etc.) e ci raccontano il progressivo affinamento dei metodi di ricerca e delle interpretazioni prodotte dai ricercatori. Manca ancora una storia che ci parli invece dell’oggetto come prodotto finale di pratiche sociali e di strategie discorsive, distillato attraverso lo stesso movimento che mette a punto il sapere specialistico (con i suoi metodi e le sue interpretazioni) in un più ampio contesto politico e ideologico.

Tuttavia, l’approccio critico basato sulla decostruzione del concetto di patrimonio, che per così dire riconosce realtà soltanto ai processi di patrimonializzazione e alle entità sociologiche o economico-politiche che ne sono protagoniste, non è esente da difficoltà. Seguendolo fino in fondo, sembra che ci troviamo di fronte a due diverse forme o livelli della pratica antropologica. Un primo e più ingenuo livello in cui l’antropologia, attraverso le proprie categorie descrittive (cultura, tradizione etc.), partecipa alle politiche culturali e contribuisce alla costruzione (o “invenzione”) sociale del patrimonio, senza tuttavia possedere capacità riflessiva. A questa antropologia resterebbero opachi i più ampi contesti che plasmano il proprio stesso discorso: incapace di cogliere i presupposti epistemologici, etici, estetici dettati dall’ideologia dominante (per es. quella nazionalista), si manterrebbe subalterna e implicitamente “connivente” ad essi. Questa opacità sarebbe invece penetrata dalla più sofisticata e auto-riflessiva antropologia critica – una disciplina di secondo livello, che assume le pratiche del primo livello come proprio oggetto di studio. Ma questa meta-antropologia, non assumendo alcuna nozione positiva di patrimonio, non può e non vuole essere soggetto di politiche culturali (di conservazione, valorizzazione etc.). Studia la patrimonializzazione come pratica nativa e non vi partecipa, assumendo nei suoi confronti lo stesso distacco etnografico che, poniamo, Malinowski aveva verso la valorizzazione trobriandese dei bracciali e delle collane kula.

Sono evidenti i problemi che pone questa concezione a doppio livello dell’antropologia del patrimonio. Ne risulterebbe una profonda schizofrenia disciplinare, con un paradosso finale: se tutti gli antropologi, auspicabilmente, raggiungessero la piena consapevolezza auto-riflessiva, non resterebbero più ingenue pratiche di patrimonializzazione da sottoporre a scrutinio critico-decostruzionista, e la disciplina si estinguerebbe per mancanza di un adeguato oggetto. In definitiva, si dovrebbe allora sperare nella sopravvivenza di pochi ingenui e ideologicamente compromessi raccoglitori di tradizioni, identità locali, beni sostantivi.

Vorrei sostenere che almeno una parte delle difficoltà ha a che fare con alcuni discutibili assunti di quella stessa antropologia critica che Dino Palumbo ci raccomanda. Avendo riconosciuto come “invenzioni” le nozioni culturaliste e identitarie, e decostruito i processi di patrimonializzazione ad esse legati, l’antropologia critica pensa talvolta di poterli trattare come costrutti ideologici. Si tratterebbe cioè di idee e valori illusori, privi di riferimenti “reali”, che riflettono, amplificano, oppure mascherano e occultano, la realtà sociale, che è fatta di interessi materiali e di rapporti di potere e che può essere adeguatamente descritta solo nel linguaggio dell’economia politica. In questo modo, il rifiuto dell’ontologia culturalista, quella che suppone appartenenze identitarie in qualche modo “naturali” che preesistono agli attori sociali e determinano le loro pratiche, rischia di sfociare in presupposti ontologici di tipo economicista, ugualmente discutibili. In questa prospettiva, la realtà sociale è fatta di scontri per il controllo delle risorse e del potere, che si combattono tra soggetti economici astrattamente razionali; ogni rivendicazione di diversità e peculiarità culturale è intesa come parte di un discorso locale sostanzialmente strumentale e mistificante, volto a sostenere privilegi, a perseguire o mantenere interessi particolari.

Ora, non è difficile trovare esempi di palese uso ideologico delle nozioni culturaliste, dai conflitti della penisola balcanica, al discorso neo-razzista europeo, all’invenzione leghista della Padania, per citare casi molto diversi. Tuttavia, il fatto che le particolarità culturali si manifestino come instricabilmente legate a strategie in senso lato politiche non significa che la materia prima di cui sono fatte sia “illusoria”. Descrivere i rapporti tra economia politica e cultura in termini di rapporti sociali reali da un lato, e dall’altro illusorie ideologie da demistificare, ci riporta, a me pare, a un progetto pre-antropologico di scienza sociale, basato su un razionalismo universalistico di tipo settecentesco, incapace di trattare la diversità culturale se non in termini di ignoranza e superstizione locale. Al contrario, come ha rivendicato di recente Geertz (1999), il progetto antropologico scommette sulla possibilità – anzi, la necessità – di integrare il linguaggio universalista dell’economia e della politica con quello irriducibilmente particolarista della cultura nella comprensione del mondo contemporaneo.

In definitiva, su un piano assai generale, ciò che mi pare in gioco è l’irriducibilità delle differenze culturali nella costituzione antropologica della soggettività umana – e dunque dei modelli di agente umano che utilizziamo nelle scienze sociali. Avendo citato Geertz, possiamo citare anche un arci-razionalista come Lévi-Strauss e il suo principio (già di Rousseau e di Herder) secondo cui la comune umanità della nostra specie si realizza non malgrado ma attraverso culture particolari.

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Tutto ciò è legato a questioni interpretative assai più concrete. Nel quadro della critical anthropology che Dino Palumbo ci offre, particolarmente discutibile mi sembra l’uso della categoria di nazionalismo. Beninteso, è assolutamente vero che il discorso nazionalista dei secoli XIX e XX ha interagito in modo strettissimo sia con l’elaborazione antropologica dei concetti di cultura e identità, sia con la definizione storica, artistica, linguistica, etnografica etc. del “patrimonio”. Ed è vero che queste interazioni sono state finora insufficientemente studiate, e che per l’Italia, come detto, mancano lavori analoghi a quelli compiuti da Handler per il Quebec o da Herzfeld per la Grecia. Ma da qui a considerare le nozioni di cultura e di patrimonio come sottoprodotti del discorso nazionalista ce ne corre.

Non mi è possibile argomentare a fondo su questo punto (anche perché occorrerebbe discutere preliminarmente cosa si intende per discorso nazionalista, in una gamma di varianti che vanno da Herder a Hitler). Si possono però avanzare alcune brevi osservazioni. Partirei dalla banale constatazione che una certa idea di patrimonio precede storicamente il nazionalismo – almeno nel senso del riconoscimento di beni ambientali, monumentali, oggettuali etc. nei quali si esprime la memoria e la storia di un gruppo umano, considerati emblemi della sua unità, e che in quanto tali devono essere conservati, valorizzati, magari adorati, posti al centro di cerimonie e discorsi pubblici (riti, miti, narrazioni, contemplazione estetica e turistica etc.). Anche l’atteggiamento estetizzante, contemplativo e filologico, contrassegno di quel senso comune verso i beni culturali che Palumbo mette in discussione, precede il nazionalismo: ne è profondamente plasmato, ma non nasce con esso.

In secondo luogo, la plasmazione storica del concetto di patrimonio e di molte categorie descrittive della stessa antropologia da parte del nazionalismo non configura una situazione generalizzata di “connivenza” ideologica, che una scienza sociale “non connivente” dovrebbe smascherare. Il rapporto tra poteri e saperi, proprio secondo quel modello foucaultiano che ispira la critical anthropology, è più complesso di così. Ad esempio, è probabile che la sensibilità etnografica novecentesca non sarebbe esistita senza nazionalismo, senza Volksgeist, orgoglio patriottico etc.; ma non è detto che gli usi di questa sensibilità siano stati e siano oggi per forza subalterni e conniventi alle logiche del potere nazionalista. Anche perché, visto che potere e sapere non sono mai disgiunti, dovremmo chiederci a quale potere sia “connivente” l’etnografia critica o di secondo livello che smaschera le connivenze di quella ingenua o di primo livello; il che indurrebbe a postulare un terzo livello ancor più consapevole, e così via all’infinito. Lo smascheramento di connivenze ideologiche non è un buon modo di immaginare la riflessività antropologica.

Infine, ed è il punto più importante, dobbiamo chiederci se il concetto di nazionalismo rappresenti la più adeguata chiave di lettura dei rapporti tra politica, identità e patrimonio culturale nel mondo contemporaneo. La globalizzazione, i nuovi regionalismi, i movimenti autonomisti e federalisti di varia natura, i profondi processi di trasformazione attraversati dalla classica forma dello Stato-nazione e dai suoi rapporti con l’opinione pubblica e con i saperi esperti, ce ne fanno dubitare. Alcune caratteristiche delle politiche culturali nazionaliste sembrano ormai perdute o almeno disgregate: la centralizzazione e gerarchizzazione istituzionale, la compattezza degli specialismi disciplinari di riferimento e dei relativi gerghi e “mitologie”, la ugualmente compatta collocazione sociale dei ceti protagonisti delle politiche culturali. Se dietro il lavoro sul patrimonio c’è sempre l’immaginazione di una comunità, non è più tanto chiaro quale tipo di comunità sia di volta in volta immaginata, quali gruppi e interessi sociali siano coinvolti, quali dinamiche tra livelli egemonici e subalterni entrino in gioco, quali rapporti con i saperi accademici o con le modalità di comunicazione mass-mediale siano stabiliti.

Ad esempio, ci serve ancora la categoria di nazionalismo a comprendere quella rete dei piccoli musei etnografici italiani di cui parla Vincenzo Padiglione nello stesso numero di AM? Emerge da essi un’idea di patrimonio radicalmente decentrata sia territorialmente che epistemologicamente, talvolta esplicitamente insofferente delle gerarchie istituzionali e accademiche, promossa da ceti la cui collocazione rispetto al “potere” è assai eterogenea. Il senso di identità che essi fondano, la loro immaginaria comunità, è spesso quella del paese più che dello Stato-nazione. Come hanno mostrato i lavori di Pietro Clemente, “paese” è categoria mai completamente riducibile a più ampie appartenenze: non è mai inteso, soprattutto in Italia, come semplice diramazione periferica della più fondamentale categoria di nazione.

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La dimensione politica dell’identità di paese dev’essere analizzata empiricamente volta per volta, come lo stesso Dino Palumbo ci invita a fare. Il caso da lui studiato in Sicilia – una festa e una tradizione storica locale promossa e inventata da un potente uomo politico, con il coinvolgimento di “esperti” in patrimonio come storici e antropologi – è un esempio di grande interesse, in cui l’arbitrarietà e la strumentalità della rivendicazione identitaria è particolarmente evidente. Siamo qui in un contesto in cui un potere fortemente personalizzato si mette in scena (e si legittima) attraverso uno spettacolo o evento pubblico che plasma immaginativamente un prestigioso passato della comunità locale, utilizzando palesemente un discorso di impronta nazionalista. Ma altri casi propongono chiavi di lettura molto diverse: che dire della poetica del paese nelle opere, poniamo, di Pascoli e Zavattini, della politica del patrimonio nel museo di Ozzano Taro di Ettore Guatelli, dell’elaborazione di un immaginario mezzadrile negli spettacoli del Teatro Povero di Monticchiello, e così via?

Nello studiare tutti questi casi, certo, l’antropologia deve prendere le distanze dalle categorie – spesso essenzialiste, naturalizzate – del discorso locale, magari a loro volta prese in prestito o persino legittimate dallo stesso sapere antropologico. Ma, insisto, ciò non significa trattare il discorso locale come un costrutto ideologico, strumentale e in ultima analisi irrazionale, che trova la sua ragione d’essere soltanto nel farsi strumento del potere. La particolarità culturale – la lingua, la religione, gli “usi e costumi”, nonché la memoria incorporata negli oggetti e nei monumenti – è costitutiva delle comunità umane, e non una maschera interessata che, una volta spazzata via, lascerebbe finalmente a nudo un’umanità “naturale” di soggetti apolidi e indifferenziati.  Ma ciò significa che l’antropologia, per quanto critica – anzi, proprio in quanto critica – non può sottrarsi al compito della descrizione e della rappresentazione delle differenze culturali, accettando di giocare sullo stesso livello delle pratiche e dei discorsi più ingenui che trae ad oggetto.

Mi pare dunque che una etnografia o antropologia critica del patrimonio debba, o almeno, possa legittimamente impegnarsi e compromettersi nella elaborazione delle politiche culturali, entrando a far parte di quelle strategie di potere-sapere e di quel discorso nativo che si sforza di comprendere. Perché, proprio in virtù della sua maggiore consapevolezza riflessiva, non dovrebbe schierarsi contro certi processi di patrimonializzazione e a favore di altri? Perché non dovrebbe esprimere i propri giudizi di maggiore o minore “correttezza”? E’ un problema in certo modo analogo a quello, assai dibattuto, dell’uso pubblico della storia. La conoscenza storiografica, come quella antropologica, ha bisogno di partire da un certo grado di distacco teoretico, e non può esser costruita a partire da immediate finalità pubbliche: tuttavia, essa finisce sempre per riconfluire ed essere usata nel discorso pubblico. Nel momento stesso in cui prendono la parola, lo storico e l’antropologo entrano necessariamente in questo discorso, e diventano “conniventi” con il gioco del potere che ad esso fa da sfondo. Possono esserne più o meno consapevoli, ed è questo che in fondo fa la differenza.

Dobbiamo allora chiederci: è possibile costruire una positiva politica del patrimonio culturale a partire dal punto di vista dell’antropologia critica? In che modo le acquisizioni teoriche di quest’ultima possono trasformarsi coerentemente in pratiche di selezione, valorizzazione (che può includere, ma non necessariamente, la protezione e la preservazione), rappresentazione di beni culturali? E ancora, dobbiamo chiederci come portare nella pratica della patrimonializzazione le acquisizioni dell’approccio riflessivo: ad esempio, come produrre rappresentazioni dell’identità culturale che evitino la sua naturalizzazione; come inserire in esse lo studio delle élites politiche e intellettuali, e come collocarvi anche se stessi, in quanto ricercatori, o museografi, o pubblici amministratori, o che altro; come evitare di immobilizzare i beni culturali nella dimensione di un più o meno glorioso e antico passato, documentando i mutamenti e non solo le permanenze, l’effimero e non solo il monumentale; come opporsi, per riprendere un’osservazione di Palumbo, al dominio del “filologicamente” corretto e concedere invece visibilità alle pratiche anti-egemoniche di resistenza alla patrimonializzazione; e così via. Mi pare importante, persino decisivo – soprattutto per l’antropologia museale – riuscire oggi ad aprire un dibattito su questi punti.