Antropologia, territorio, politica. A partire dal caso Monticchiello

Antropologia, territorio, politica. A partire dal caso Monticchiello

Intervista inedita di Federico Scarpelli a Pietro Clemente, 2007.

FSTra Pienza e Monticchiello in questi anni succedono diverse cose. A Pienza noi siamo stati coinvolti nella gestione del territorio partecipando ai lavori del Piano Regolatore. A Monticchiello Alberto Asor Rosa parla di un Parco della Val d’Orcia che sarebbe fallito anche perché ha finito per affidarsi alle scelte dei sindaci, invece di dotarsi di un'”authority intellettuale”. Immaginiamo che ci siano, almeno simbolicamente, tre soggetti che possono essere in un certo senso titolari delle scelte. Qual è il posto dell’antropologo? Tra gli intellettuali? Come si è stati consulenti a un PRG si potrebbe anche far parte di un’authority che veglia sulla gestione del territorio? Oppure questo è in fin dei conti un discorso elitario? Con gli amministratori, considerando gli enti locali un livello particolarmente congeniale alla produzione di sapere antropologico? Ma non affiora a volte una concezione ristretta e autoreferenziale di “buona amministrazione”, che non si preoccupa più di avere dietro di sé una consapevole idea di futuro? Con “la gente”? L’idea di raccogliere e valorizzare le “voci” di un territorio può consentire di cercare una terza via?

PC – Tra sindaci e authority non credo che gli antropologi debbano scegliere, certo l’antropologia è per statuto una disciplina anti-giacobina e diffida quindi del potere delle autorità. Ma in effetti ci sono molti casi di ‘authority’ che hanno compiti di sorveglianza di supervisione tecnica in dialogo con altri soggetti, e che non si assumono titoli di legittimità assoluta, bensì in interscambio, trattativa, conflitto. L’autorità che invece sembrano rivendicare i difensori del paesaggio del movimento innescato da Asor Rosa e patrocinato da Ripa di Meana, è di difesa dell’ordine estetico, e ricorda un po’ lo stile degli inizi di Italia nostra che combatteva contro le plebi ignoranti, l’ambientalismo dei ricchi, colti e intellettuali. Che pure è stato assai utile, in una sorta di braccio di ferro tra soggetti, contro l’economicismo delle sinistre. Ma il Codice dei beni culturali e del paesaggio è più avanti del livello di discussione che si è espresso sul caso Monticchiello, nel senso che fa riferimento alla Convenzione europea sul paesaggio (siglata a Firenze nel 2000) per cui il paesaggio “designa una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Una tale concezione del paesaggio è di fatto almeno in parte in conflitto con una sorta di effetto “aura dell’opera d’arte” che la normativa Unesco e le sue scelte di tutela proiettano sui territori tutelati. Con il rischio che essi siano sottratti alle popolazioni che li vivono e affidati alle ‘authorities’ esterne i cui criteri sono i loro gusti, i loro vincoli, essendo più colti e più raffinati delle popolazioni locali, i loro gusti saranno più elevati. Strano a dirsi il legislatore (e la legge è stata fatta sotto il Ministro Urbani di Forza Italia) è più a sinistra di Asor Rosa e Ripa di Meana, anche se alle loro denunce dobbiamo qualcosa (aver sollevato il dibattito, avere dato l’allarme). Gli interpreti del Codice dei beni culturali infatti intendono che ” si pongono così le basi per il superamento della concezione estetico-culturale del paesaggio”…..”La concezione che trapela …si avvicina di più a quella della che si fondava proprio sul significato storico e culturale che assume una comunità in un continuo processo di interazione tra natura e opera dell’uomo» (cito Stefano Civitarese Matteucci, docente di diritto amministrativo, nel commento all’art.131 del Codice, Bologna, Il Mulino, 2004 a cura di M. Cammelli, pag. 507,8,9). Una concezione del paesaggio imperiosa, autoritaria, esteticamente elitaria, non aperta alla trattativa e al dialogo, è più dannosa che non “il contesto di vita e l’identità delle popolazioni” di cui parla la convenzione europea e che potrebbe comportare anche un uso del paesaggio ignaramente o scientemente non rispettoso della sua storia? Io credo che si comincia il discorso solo riconoscendo queste possibili parti in conflitto. Riconoscendo che le normative UNESCO incrementano la conflittualità e costituiscono il campo internazionale del patrimonio come nuovo orizzonte politico, ma che né l’UNESCO né la convenzione europea sono tavole delle leggi, e sono legate comunque a pratiche politiche di interpretazione, a lobbies, a politiche. La Val d’Orcia era considerata brutta e desolata prima del ‘900 e poi è diventata un paesaggio di ‘anima’ di questo secolo travagliato, con le poesie di Luzi, con i fotografi, la pubblicità, il cinema, ma l’Unesco nel caso di Pienza e Monticchiello ha riconosciuto piuttosto i tratti del paesaggio rinascimentale, paesaggio urbano e coltivato ‘ridisegnato nel periodo rinascimentale per rispettare gli ideali di buon governo e creare un’immagine esteticamente gradevole. Definizione che sembra trascurare largamente l’età moderna, e leggere il paesaggio in una chiave storico-estetica. È una definizione a mio avviso ambigua e anche infedele al paesaggio a noi conosciuto, che ha giocato le carte del prestigio della storia dell’arte per avere il riconoscimento (pittori di scuola senese, buon governo, Rinascimento…). È difficile mettere dei punti fermi su chi ha ragione e chi ha torto. E meglio studiare il campo di battaglia e identificare vari livelli di azione, evitando le schematizzazioni e le lobbies, per assumere punti di vista complessi. In questo momento è anche difficile far appello alle popolazioni, alla loro percezione del paesaggio, perché viviamo una forte crisi della democrazia e della rappresentanza, penso a ciò che ha scritto Paul Ginsborg in La democrazia che non c’è, e difendere i sindaci mi pare giusto rispetto al centralismo (per me che sono per le autonomie e che sento le autonomie congeniali anche al pluralismo dell’antropologia). In altri tempi si potevano immaginare movimenti, assemblee, pronunciamenti referendari locali. Invece qui le amministrazioni e i politici cercano di essere solidali in nome della rappresentanza elettorale ricevuta e nei limiti che i conflitti politici consentono (DS, Margherita e altri gruppi dell’Ulivo che hanno peso locale in una realtà dove la destra è poco rappresentata). Il Sindaco di Pienza ha difeso con coraggio la posizione della sua amministrazione, essendo anche le scelte edilizie fatte da sindaci precedenti. Tuttavia nel fronte dei critici verso le prese di posizione di Asor Rosa e dei suoi sostenitori si sono sentite tesi molto varie che hanno fatto pensare che la conversione dall’economicismo all’ambientalismo che è stata il tratto caratterizzante degli amministratori della Val d’Orcia alla fine degli anni ’80 fosse solo di facciata. E nessun soggetto contendente ha voluto portare il caso Toscana alla discussione che è molto più interessante e frastagliato, e fa capire meglio le dinamiche in atto. Ci sono amministrazioni che hanno scelto lo sviluppo contro il paesaggio, amministrazioni che hanno scelto il paesaggio per rassegnazione, amministrazioni che dividono il loro spazio in parti a tutela storico-ambientale e in parti a scasso industriale, amministrazioni che investono sul turismo e quindi sul paesaggio ma con una certa elasticità. Il paesaggio è legato ai progetti di vita delle comunità locali, non può essere una questione di mero principio. Il ruolo dell’UNESCO è in fondo educare le comunità locali a vedere il loro futuro investendo sul patrimonio, se no sarebbe solo produzione di medaglie. Di fatto il territorio interpreta le attestazioni UNESCO in chiave di gerarchia di bellezze, e la politica usa così i riconoscimenti quando fa comodo, e invero mette al primo posto i bisogni della gente quando invece fa comodo una posizione diversa. L’UNESCO è solo una nuova base di riferimento per la politica locale. Il Sindaco di Pienza ha mostrato sensibilità e attenzione all’antropologia chiamandoci a lavorare sul piano strutturale, ma poi il dibattito non ha preso la piega di dare la voce alle posizioni della gente del posto, che in genere non ha visto i propri musei, che vede il territorio come chi c’è cresciuto dentro, come proprio e utile, e ritiene proprio privilegio quello di usarlo, la presenza ormai di una quota di cittadini che sono legati alla passione per il territorio e al turismo, e quindi di fatto tendono a una gestione turistica dello spazio, conflitti sui temi della ricaduta sociale del turismo, scarsa riflessività identitaria, conflitto simbolico tra centro e frazioni, mancanza di immaginazioni strategiche sul futuro in un contesto di eccellenza storico-ambientale. Quello che manca a Pienza è un lavoro lungo e capillare di riflessione tra i cittadini e gli eventuali ‘esperti’ su come vivere traendone reddito adeguato ed equilibrato in un territorio segnato dalla storia che è perciò anche una risorsa da rispettare. Una gallina dalle uova d’oro. Si può accettare una prospettiva di puro terziario dell’ospitalità turistica complementare con una agricoltura di qualità? Si possono accettare dei limiti allo sviluppo turistico? Si può costituire il paese in “ecomuseo” come in varie parti del mondo si è fatto lungo gli anni ’80 e ancora adesso, intendendo dire che governare, valorizzare, sfruttare turisticamente una zona è fatto della comunità residente e non di pochi? Il privilegio della storia, della qualità, della bellezza può essere socializzato e diventare democrazia? O è inevitabile un ‘imbarbarimento’ consumistico anche dei territori di maggiore equilibrio e qualità? Dov’è il confine e la compatibilità? Perché le cave che hanno sempre fornito lavoro e reddito devono essere chiuse? Perché non si può più abitare nello spazio storico? E a quali condizioni si può farlo? Essere cittadini di mondi locali ‘segnati’ dalla storia e dall’attenzione internazionale è una responsabilità collettiva che nessun sindaco può prendere a nome di tutti i cittadini, c’è solo da lavorare molto per costruire opinioni, consenso, scoprire modi di vivere nuovi. È evidente che il bisogno di un cittadino di Pienza di avere auto, garage, ascensori, supermercati, scale mobili, ripetitori di TV e telefoni cellulari, autostrade dentro le mura, è assai più colpevole che a Poggibonsi. Ed è evidente che lo sviluppo edilizio nella periferia di Siena e la diffusione dei centri commerciali stanno danneggiando irreversibilmente il paesaggio delle città storiche. Occorre un nuovo patto con le popolazioni come quello degli anni 70 in cui la Toscana fu leader, avere il privilegio di vivere in centri segnati dalla storia comporta l’obbligo di limitare i consumi che lo danneggiano. Accettando questa convenzione (traversando il corso a Siena su asini e carri a buoi) i cittadini accettano anche di essere all’avanguardia nella lotta contro i consumi che producono nocività e danno ambientale globale. Questo non significa imbalsamare il paesaggio, ma discutere e contrattare continuamente il senso e la prospettiva delle azioni alla volontà di portare il patrimonio nel futuro,
di cederlo alle nuove generazioni, alle quali dare però anche prospettive di lavoro e non di emigrazione, se non fosse così il patto non avrebbe senso e i cittadini delle città d’arte farebbero bene ribellarsi. Affrontando la questione da un altro punto di vista, sembrerebbe che in questi anni – forse a partire dai girotondi – si sia consumata una frattura, almeno parziale, tra il mondo accademico-intellettuale, e i partiti della sinistra.

FSUna disciplina dal tratto fortemente accademico come l’antropologia, che si è sempre considerata in larghissima parte vicina alle ragioni della sinistra, come reagisce a questo cambiamento di tempi? Cercare comunque di affermare il proprio sapere nel dialogo con le istituzioni corrisponde a uno specialismo disimpegnato? Un’antropologia “impegnata”, “non connivente” è possibile – come dice qualcuno – solo nell’ambito di una ricerca “pura”, il cui committente dev’essere l’università o altre istituzioni di ricerca?

PC – Sui temi della cultura popolare e del patrimonio DEA la rottura c’è stata di fatto molti anni fa quando la sinistra comunista ha preferito le lobbies dell’arte (vedi anche il ministero dei BBCC di Veltroni che ha solo allargato al Cinema, o quello di Melandri) ai gruppi accademici o volontari che indicavano le culture popolari e locali come base di riferimento della politica. Timorosa delle diversità locali, autoritaria nel suo modo di definirsi, economicista in periferia, politicista al centro e quindi più dotata di tattiche che di ispirazioni ideali, ricca di inevitabili menzogne e plurifaccialità, la cultura comunista ha portato le masse nella scena della democrazia in modo assai ambiguo. I girotondi sono stati forse il segnale che la generazione che negli anni ’60 aveva mostrato alla sinistra comunista la mancanza di partecipazione, democrazia, spirito di ribellione all’ingiustizia, mancanza di difesa delle marginalità, etiche di buonsenso borghese, non aveva cessato negli anni ’80 e ’90 di essere critica verso il dirigismo e il tatticismo. È stata una ricomparsa in scena di quella generazione che ha cercato di portare con sé anche nuove generazioni, con successo limitato. A me sembra che l’antropologia, come in fondo successe già negli anni ’50 ’60 e ’70 è impegnata entro la sinistra in una militanza che è centrata sul dare voce al territorio, ai suoi saperi, tradizioni, cambiamenti, stili, a mostrare il mondo del patrimonio come un terreno di confronto sociale e culturale, i musei come agenzie di attivazione democratica della società civile. Richiamano la politica a tornare a queste cose e non agli equilibrismi e alle lottizzazioni dei posti, alle lobbies. Ma ormai la politica è gestione del potere e noi possiamo essere critici verso di essa, difficilmente essere costruttivi. In modo imprevisto sono emersi spazi per le cose di cui ci occupiamo nel ministero Rutelli dei BBCC, credo che ci dobbiamo impegnare perché non è nostro scopo rifiutare coinvolgimenti con il potere ma valorizzare in modo adeguato il patrimonio, produrre riflessioni critiche su di esso, favorire la partecipazione della gente, dei volontari, dei portatori di tradizioni.

FSQuello della Val d’Orcia è un Parco che nasce con l’intento dichiarato di coniugare conservazione e sviluppo. Ma in che modo si articolano le due parole? Conservare alcune cose mentre si fa crescere l’economia, o tutelare l’insieme, e solo in seconda battuta pensare al reddito? Ad esempio, secondo Asor Rosa il problema dell’insediamento di Monticchiello non sarebbero solo le sue dimensioni assolute, ma le sue dimensioni in relazione a quelle del paese storico. Rischierebbe di essere compromessa l’identità del borgo, e non solo la curva di un paesaggio. Dove comincia e dove finisce l’insieme cui si fa riferimento? Ed è sottoponibile a tutela? Non sono problemi simili a quelli che l’antropologia del patrimonio incontra nel sistema dei beni culturali, poiché questo è organizzato a partire da oggetti, archivi, vincoli, mentre noi ragioniamo piuttosto di persone, pratiche e contesti (magari col timore che qualcuno voglia archiviarli, vincolarli, oggettivarli)?

PC – La lunga vertenza su Monticchiello non si è mai fermata a dare sistematicamente la parola alla gente su questi temi, lo sviluppo sostenibile è un vangelo a parole, ma ognuno lo interpreta a suo fine. Su Monticchiello c’è una discussione continua degli abitanti in varie sedi, tra queste il teatro e il giornale della Parrocchia, ci sono tante prese di posizione, ma forse anche qui le voci più forti incutono paura a quelle più deboli. Non è chiaro quali meccanismi di tutela democratica per il futuro innescare, si ha l’impressione che non c’è nulla da fare se non lasciare testimonianza nel teatro, o che si debba lasciare all’individualismo ogni soluzione. Anche in un centro così piccolo c’è una forte sfiducia nella politica come fattore di cambiamento. I giovani che lavorano lì o nei dintorni e che sono necessariamente pendolari dovrebbero essere ascoltati di più. Ma nessuna comunità può essere costretta alla trasparenza e alla perdita dell’intimità culturale. La mia impressione è che essa sia contro Asor Rosa, anche per le piccole violazioni ch’egli stesso ha fatto delle regole della comunità in cui ha la seconda casa, la sensazione che sacrifichi la gente a una sua idea di bellezza del paesaggio. I volantini anonimi insistono su questo. Resta una protesta contro l’estraneo che vuole avere ragione o è dotata di un proprio orizzonte di futuro? Non lo so proprio.

FSIn Val d’Orcia, ma anche altrove, le critiche agli amministratori fanno riferimento a una sensibilità ecologista che ha a sua volta un posto difficile da definire nella cultura di sinistra, di cui rappresenta uno dei filoni più vitali, ma anche un’ “aggiunta” relativamente recente e forse non del tutto armonizzata con la sua tradizione. Dopo più di vent’anni nei quali i discorsi ecologisti hanno acquistato spazio nei media e nella scuola, non può essere il momento di cominciare a “decostruire” per il suo stesso bene anche questo tipo di sapere (e, ormai, di potere)? Qualcuno direbbe: non ci sono anche qui delle oggettivazioni da oggettivare?

PC – Io sono convinto che senza una concezione globale del pianeta e del rischio di autodistruzione non si possano fare politiche in alcun territorio. Credo ci sia ancora un difetto di ecologismo in questo senso. Riflettere sulla Cina, sull’India su Bush e il trattato di Kyoto è decisivo per sapere che fare a Monticchiello (è evidente che si tratta di un caso irrilevante che è diventato più che altro di principio). Senza una concezione generale della diversità come prospettiva dell’umanità non ha senso difendere una palude o un sito. Sarei più per decostruire la nozione di sviluppo sostenibile che somiglia a quella di Moro delle convergenze parallele. Cambiare le metafore economiche? Non c’è abbastanza sviluppo e crescita sulla terra? Cosa dobbiamo aumentare? L’occupazione certo, la qualità del lavoro, della vita. Perché dare priorità ai parcheggi alle autostrade? Se dessero lavoro ci si potrebbe anche pensare ma visto che ci sono le macchine automatiche, dobbiamo inventare lavoro qualificato e duttile per le nuove generazioni al servizio della qualità ambientale e della diversità, che sia anche valorizzazione del territorio come luogo storico di differenza. Non lasciarlo al libero mercato, né alle sovvenzioni senza prospettiva. Le città toscane non hanno più centri storici qualificati, non ci sono più artigiani, solo bar e paninoteche, hanno chiuso librerie storiche, negozi centenari a favore del franchising, si può fare una politica di riqualificazione dei centri urbani che favorisca la differenziazione, la creatività dei giovani, e non la mono cultura commerciale? Cosa può fare un Comune? Anche in rete? Occorre partire da quest’ultima cosa, se il comune può solo dare permessi e divieti e non può orientare il futuro, tutti questi discorsi sono inutili.

FSSi può anche osservare come a volte emerga una sensibilità estetica o estetizzante impegnata a costruire gerarchie e presentarle come indiscutibili. Così delle case a due piani possono essere un ecomostro solo in Val d’Orcia o in luoghi altrettanto pregiati, dove sarebbe impensabile mettere una discarica – come una volta, però, si voleva fare. Ma questo significa che sono i luoghi già danneggiati a doversi prendere le discariche? Forse è ragionevole sostenere che entrare nella lista dell’UNESCO comporti delle responsabilità particolari, che vanno al di là della semplice applicazione delle leggi. Ma non rischia di passare l’idea che la diversa “importanza” dei territori sia qualcosa di oggettivo? Non starebbe (anche) all’antropologia relativizzare queste valutazioni? E poi, chi ha l’autorità di farle e di imporle?

PC – Se uno facesse la lista di cosa l’UNESCO non ha riconosciuto come beni e tesori dell’umanità capirebbe che probabilmente i tesori più puri rari e nascosti (come avrebbero detto i romantici) saranno quelli che non hanno saputo che si doveva fare una domanda con una complessa procedura amministrativa e politica internazionale. Quelli che fanno domanda hanno esperti e gruppi di pressione. Tendenzialmente l’UNESCO riconoscerebbe che tutto il mondo è un tesoro dell’umanità purché lo dica l’UNESCO. In questo senso pone una forte domanda educativa alla gente: cosa significa vivere rispettando e valorizzando una differenza culturale che è anche il contesto della vita delle persone? Mi pare che non ci siano molte risposte. In teoria chi si è avvicinato di più al nodo sono quelli degli ‘ecomusei’, a loro possiamo guardare per vedere insieme valore della differenza e democrazia, socialità e sviluppo. Ma in gran parte gli ecomusei sono falliti. Il loro metodo però resta interessante. Infine, la gestione del territorio, almeno in ambiente urbano, richiama inevitabilmente il tema della sicurezza, ormai centrale nelle discussioni politiche, fino al rapporto Demos-Coop di qualche giorno fa sul crescente senso di allarme degli italiani. E da qui torniamo al problema delle voci dei cittadini. C’è spesso la tendenza a saltare fuori dai contesti locali, interpretando l’insicurezza come sottoprodotto ideologico di una pressione mediatica allarmistica, contrapponendogli dati e osservazioni che ne dimostrano l’irragionevolezza. Non è però lo stesso procedimento che usiamo in altri casi.

FSLa società è “civile” solo quando dice cose “civili”? Il sapere antropologico che cerca di ricostruire dal punto di vista degli attori sociali il senso di certi discorsi non rischia di entrare in stallo dove il tema appare troppo “politicamente sensibile”?

PC – Forse la mia idea di un approccio antropologico alla politica è di tipo metodologico. Vedo il nostro specifico nella politica più o meno come rappresentai il ruolo dell’antropologo in un saggio del 91 (Oltre Geertz, in L’uomo, IV, n.1) in cui lo descrivo come “un autore che si presenta piuttosto – all’incontro tra molte possibili cornici di discorsività – come un attento gestore di reti di descrizioni dense e ‘sottili’ e di documenti diversi, non tutti costruiti qui né tutti osservati là, costruttore di link tra essi, abile a ‘navigare’ in una gamma di nodi e incroci della rete, in cui l’autore non è il burattinaio, ma uno dei personaggi della scena in cui questa attività si svolge…si ha la sensazione che non la pagina, bensì la scena sia la miglior metafora dei problemi attuali dell’antropologia”. Voglio dire che è la rappresentazione polifonica, e quindi il più possibile ‘perspicua’, il contributo che l’antropologia può dare alla democrazia delle scelte collettive, e alla politica se questa ha a che fare con quella. L’antropologia non può essere ‘buonista’ e ‘prescrivere’ comportamenti ‘corretti’ verso gli immigrati, verso i ‘marginali’, etc… deve rappresentare i vissuti, solo in questo modo può favorire interconnessioni di immagini, possibili ‘dialoghi’ tra uomini con diverse storie. Se tace la pura della gente comune, se studia solo gli zingari e non le famiglie medie, rischia di riprodurre tautologie. È evidente che la sinistra può sostenere il bisogno di sicurezza diffuso, ed è solo la sinistra che lo può sostenere senza perdere anzi incrementando il pluralismo della società civile, il diritto alla vita sociale pubblica che è l’essenza dello stile italiano di socievolezza. Il dramma è quando la sinistra si modella sulla destra e persegue la sicurezza come forma di autoritarismo. Una rappresentazione così plurale del mondo sociale conviene molto anche all’antropologo come soggetto di idee politiche, o almeno a me, che per storia personale ho sempre costeggiato la sinistra in posizioni eterodosse e criticandone il corporativismo, il centralismo, la mancanza di critica sistematica delle proprie idee. È importante che io non proponga il mio fastidio per la sinistra italiana, e la mia nostalgia per un radicalismo non comunista, la mia noia verso le scelte opache e di basso profilo delle amministrazioni toscane, come uno strumento di analisi o un prodotto della analisi, ma esso sia visto come una delle voci nella rappresentazione polifonica.