Violenza, Memoria e Testimonianza

Copertina di Antropologia della violenza

Il volume Antropologia della violenza, a cura di Fabio Dei (Roma, Meltemi, 2005), attualmente esaurito nella distribuzione libraria, è qui disponibile in full-text per finalità didattiche:

  • Introduzione. Descrivere, interpretare, testimoniare la violenza, di Fabio Dei
  • Cultura del terrore, spazio della morte, di Michael Taussig
  • Il mito del conflitto etnico globale, di John R. Bowen
  • Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, di Robert M. Hayden
  • Tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti, di Talal Asad
  • L’atto del testimoniare. Violenza, conoscenza avvelenata e soggettività, di Veena Das
  • Questioni di coscienza. Antropologia e genocidio, di Nancy Scheper-Hughes
  • Riferimenti bibliografici

L’interesse per i temi della guerra, dei genocidi, delle violenze di massa caratterizza peculiarmente il dibattito antropologico internazionale degli ultimi 10-15 anni. È una novità. In precedenza, l’antropologia aveva per lo più taciuto in proposito. Il Novecento è stato il secolo delle guerre totali, della Shoah, delle pulizie etniche e dei massacri di civili; ed è stato anche il secolo delle scienze sociali e dell’antropologia. Ma il sapere prodotto da quest’ultima si è tenuto prudenzialmente lontano dalla faccia oscura del secolo. Si è spesso ritenuta la guerra un evento momentaneo, estraneo alle “normali” strutture sociali e culturali che la disciplina è interessata a studiare. Anche nei luoghi e nei momenti in cui i suoi “oggetti” di studio, i popoli cosiddetti indigeni, subivano veri e propri genocidi, l’antropologia non ha voluto tematizzare la violenza.

Le cose sono cambiate di recente. Un po’ perché è cambiata l’antropologia, che con la svolta riflessiva si è interrogata sulle condizioni in senso lato politiche del proprio sapere, e sulla violenza costitutiva delle proprie stesse categorie epistemologiche. Un po’ perché si è trasformata la natura delle guerre, che in molte parti del mondo si intrecciano in modo inestricabile con le basi stesse della convivenza civile. Nelle guerre civili, nelle violenze di stato e nei conflitti “a bassa intensità” si tende spesso a colpire le comunità di civili non solo nelle loro basi economiche, ma anche e soprattutto nei legami sociali che le tengono unite e radicate in un territorio. Così gli antropologi, anche volendo, non potrebbero più fingere di non vedere tutto questo. Le politiche del terrore e della pulizia etnica mirano a distruggere proprio quei fondamenti culturali, quell’ethos sociale che gli antropologi cercano di studiare e di capire.

La tematizzazione della violenza ha prodotto due tipi di contributi. Da un lato, resoconti etnografici di contesti dominati dalla violenza; dall’altro, elaborazioni teoriche volte a comprendere la violenza come fenomeno sociale. Nei primi, emerge il grande problema di come rappresentare nelle scrittura (o in altre forme di rappresentazione etnografica) la natura peculiare e drammatica dell’esperienza della violenza. Essa sembra contrastare con le istanze di oggettività, distacco scientifico, coerenza e attribuzione di senso che caratterizzano l’antropologia classica. I requisiti stessi della scrittura saggistica non sono forse diametralmente opposti all’obiettivo di rendere la qualità frammentaria, insensata, dolorosa della violenza e della sofferenza che essa provoca? E ancora, una rappresentazione troppo partecipante e ravvicinata non rischia di produrre effetti ambigui, ad esempio una sorta di voyeurismo o pornografia della violenza, o persino di diventarne complice identificandosi mimeticamente con quella che Michael Taussig ha chiamato “cultura del terrore”?

Le elaborazioni teoriche insistono soprattutto sul nesso tra la violenza e le politiche dell’identità – un terreno su cui l’antropologia si sente in forte imbarazzo, vedendo impiegate le proprie categorie classiche (cultura, tradizione, appartenenza etnica o culturale) come strumenti di sostegno ideologico alle più aggressive politiche xenofobe. Molti contributi mettono infatti in discussione la reificazione dei concetti di cultura e identità e il conseguente “mito del conflitto etnico”. Altri cercano tuttavia di andar oltre e comprendere “dal basso” il fenomeno della diffusione dell’odio etnico – la sua natura “incarnata”, per usare l’espressione di Arjun Appadurai. Ci si interroga così sulla “sintassi” simbolica e rituale di massacri e torture, e sul rapporto che lega le grandi violenze di massa con le piccole pratiche di esclusione e disumanizzazione che caratterizzano la quotidianità nel mondo contemporaneo. Si studiano inoltre le pratiche di elaborazione del lutto e della memoria da parte delle comunità che sono state vittime di violenza, in riferimento alle guerre del Novecento, alla violenza di Stato dei regimi totalitari, a casi anche molto recenti di guerriglie, attacchi terroristici, repressioni militari. Ancora, un importante filone di riflessione indaga il nesso fra la violenza e le sue immagini, che si propagano in modi assolutamente nuovi sui media e sulle reti elettroniche fino a divenire non una rappresentazione esterna, ma un aspetto costitutivo del fenomeno stesso, come mostra ad esempio il caso delle torture di Abu-Ghraib. Tutto questo fa dell’antropologia uno strumento indispensabile per chi voglia oggi porsi – per usare l’espressione di Susan Sontag – “di fronte al dolore degli altri”.

Come nelle altre parti del sito, i materiali presentati sono inizialmente i prodotti del nostro gruppo di ricerca; ma saremo lieti di accettare proposte di contributi ulteriori.